“Onore e dignitudine”. Morire d’amore e di ‘Ndrangheta in Calabria
CROTONE – Si può morire per amore? In Calabria, sì. Perché se ti innamori della persona ‘sbagliata’, paghi quel sentimento con la vita. E’ accaduto, più volte. A uccidere, i mafiosi. A morire, vittime innocenti. Storie dal sapore arcaico intrecciate con la modernità dei tempi che viviamo. Le raccontano bene, dando voce ai familiari, Ludovica Ioppolo (sociologa e ricercatrice Istat, collabora con la Cattedra di Sociologia della Criminalità Organizzata del professor Nando dalla Chiesa all’Università Statale di Milano) e Sabrina Garofalo (dottore di ricerca in Politica, Società e Cultura presso il Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica presso l’Università della Calabria e docente a contratto di Sociologia generale all’Università Magna Grecia di Catanzaro) nel libro “Onore e Dignitudine. Storie di donne e uomini in terra di ‘Ndrangheta” (Falco Editore), presentato questa mattina presso i locali della Lega Navale di Crotone. Il dibattito, moderato dalla giornalista Antonella Marazziti, si è sviluppato grazie ai contributi e alle riflessioni di Giovanna Calvo e Marco Ciconte, che hanno dialogato con le autrici.
Il testo è frutto di un lavoro di ricerca sul campo ma anche di un impegno sociale di Ioppolo e Garofalo, volontarie dell’Associazione Libera. “Questo libro ha il merito di dare nomi e cognomi alle vittime di mafia, per troppo tempo considerate solo numeri. Nomi dietro ai quali ci sono persone, vite, famiglie” ha detto Antonio Tata, referente di Libera a Crotone.
“Abbiamo provato – esordisce Ioppolo – a sfuggire alle grandi narrazioni stereotipate di una terra che oggettivamente è disgraziata, non possiamo indorare la pillola”. E partendo proprio da questa amara constatazione, il libro “vuole restituirle orgoglio e dignità”. Certo non basta un libro, non bastano le iniziative culturali per cambiare le cose. Ma ognuno di noi è chiamato a fare una scelta, a decidere da che parte stare “e quando un bambino di 11 anni viene ammazzato su un campo di calcetto, non possiamo girarci dall’altra parte perché riguarda tutti noi” aggiunge. Il riferimento è a Domenico Gabriele, la cui vicenda è contenuta nel libro “Al posto sbagliato” di Bruno Palermo, giornalista crotonese che non ha voluto mancare all’incontro di oggi.
“Non è facile parlare di queste storie – ha detto Garofalo – perché si viene immersi completamente, si attraversa il dolore passando da parole che pesano come macigni. Con il nostro libro offriamo una contro-narrazione” di questi fatti di Ndrangheta e chi crede di trovare risposte e certezze tra queste pagine sbaglia: “la nostra ricerca vuole essere un contributo alla riflessione, speriamo di suscitare domande e non creare certezze sulla ‘Ndrangheta”.
Tra le vicende narrate, quella di Pino Russo Luzza, quella di Fabrizio Pioli, quella di Santo Panzarella. Ragazzi normali, ragazzi per bene, che hanno osato “sfidare” l’onore e la “dignitudine” di altri uomini, di uomini mafiosi. Innamorandosi delle “loro” donne hanno osato anche mettere in discussione la virilità dell’uomo mafioso, che risponde esercitando il suo potere: non solo ammazza il rivale in amore, ma ne fa sparire il corpo. Riappropriandosi così della donna e della propria mascolinità.
Ai familiari resta il dolore, il vuoto e la dignità. Ai mafiosi restano condanne da scontare e l’illusione di aver rimediato al “disonore” riportando nella giusta misura la considerazione che gli altri hanno di loro, la dignitudine appunto.
Nel libro c’è spazio anche per Alessandro Bozzo, giornalista di Cosenza suicidatosi nel marzo 2013. Scriveva “troppo” e troppo bene, Alessandro. Tanto da ricevere minacce e proiettili. Vittima di un sistema in cui potere e malaffare si incontrano. La sua è una “storia di giovani, di giornalisti e di precari della nostra terra” spiega Garofalo.
E ha certamente ragione Alfredo Borrelli – figlio del carabiniere Francesco Borrelli ucciso dalla ‘Ndrangheta a Cutro nel 1982 – quando dice che per raccontare la Calabria “abbiamo bisogno di voci potenti di questa nostra terra. Altrimenti il rischio è che la raccontino male. O non la raccontino affatto”.
Francesca Caiazzo