Carmine Abate agli studenti di Crotone: “Il mio dialetto? Un’esca nel mare della memoria”
CROTONE – Parole e musica. Voci e suoni. L’aula magna del liceo classico Pitagora di Crotone ha ospitato il grande scrittore Carmine Abate per un reading di alcuni passi del suo ultimo libro, “La felicità dell’attesa”, che ha visto protagonisti gli studenti del Pitagora e del liceo scientifico Filolao, i quali si sono alternati nel leggere le pagine dell’opera letteraria e nell’esibirsi in brevi momenti musicali. L’evento rientra nel ciclo di incontro “I grandi scrittori incontrano Crotone, la Città della Vela” organizzato da Club Velico, Comune di Crotone e Camera di Commercio per accompagnare il percorso verso i Campionati Europei Optimist 2016 che si terranno in estate allo “stadio del mare” cittadino. Nell’occasione, Abate ha letto un suo racconto inedito per omaggiare Crotone, Città della Vela appunto, “scritto di getto su uno smartphone perché non avevo altro a disposizione in quel momento, mentre stavo a Carfizzi e in lontananza vedevo il mare”. Un testo che spiega più che raccontare, che invita alla riflessione e all’azione per “valorizzare quanto di bello abbiamo nella nostra terra”. Partendo dal mare. Una fotografia di un luogo meraviglioso che va tutelato. Amato.
Nei libri di Abate c’è sempre qualcuno che si confronta con le sue origini, in quei posti che spesso sono gli stessi che hanno visto anche Abate crescere, diventare adulto. Prima che Abate stesso emigrasse. “Non c’è scritto da nessuna parte – spiega lo scrittore – che bisogna nascere o morire in un posto, l’importante è poter scegliere. Io dentro sento ancora la rabbia di non aver avuto l’opportunità di restare in Calabria. Sono stato costretto a partire. Quella ferita, la partenza, mi è rimasta dentro per tanti anni finché non ho deciso di trasformarla in ricchezza. Ecco perché non bisogna mai dimenticare le proprie radici, perché sono in profondità, dentro di noi. E non è vero, come spesso sento dire, che gli emigrati sono sradicati. Semmai bisogna curare anche le nuove radici, quelle che ci nascono sotto i piedi nei tanti luoghi in cui viviamo”.
Qual è dunque il rapporto che lega Abate alla Calabria, alla sua Carfizzi? “Esiste l’amore per la patria?” gli chiede uno dei ragazzi. “Non amo la parola patria, preferisco usare la parola terra e – spiega – in tutti i miei libri è presente l’amore per la propria terra. Non ho mai avuto dubbi su questo. Ho, invece, avuto spesso dubbi sulla gente che, la nostra terra, la abita. Non tutti sono onesti. C’è corruzione, malaffare, la Ndrangheta e una classe politica non sempre all’altezza”. Un rapporto di odio-amore, dunque? Affatto. “Non sopporto questa espressione. O si ama o si odia. Io con la mia terra – continua Abate – ho rapporto passionale: la amo ma spesso ci litigo. Una terra che si lascia andare, che non sa difendersi da chi la vuole colpire, sfruttare per il proprio tornaconto personale. Dobbiamo tutti tanto a questa terra e solo in questa terra avremo futuro, per questo dobbiamo valorizzarla”.
Radici e terra, dunque. Elementi che Abate conserva nel cuore e allo stesso tempo dona al mondo attraverso i suoi libri. Raccontando con semplicità e, spesso, utilizzando termini dialettali e parole in arbereshe. “Nella mia vita – esordisce Abate – ho avuto tante fortune. Una di queste è stata nascere in un paese dove si parlava un’altra lingua. Ricordo che da piccolo, a scuola, i maestri non volevano che parlassimo arbereshe. Quante bacchettate! Io, con gli anni, ho invece capito che parlare un’altra lingua era una ricchezza, non un handicap come volevano farci credere. Io stesso ho dimostrato che parlare arbereshe non significa non saper parlare italiano. Eppure, all’inizio della mia carriera, gli stessi editori mi suggerivano di eliminare quei termini dai miei libri altrimenti sarei diventato uno scrittore di nicchia. Oggi i miei libri sono tradotti in tutto il mondo. Altro che nicchia!”. Ride, mentre i ragazzi divertiti applaudono. Quindi cosa rappresentano, per lui, tutti i termini dialettali che ritroviamo nei suoi scritti? “Me lo sono chiesto anche io dopo qualche anno che iniziai a scrivere. Credo che quelle parole siano un’esca che lancio ogni volta nel mare della memoria. E aggiunge: “L’arbereshe per me è la lingua del cuore, l’italiano la lingua del pane”.
Partire, tornare. Restare. Ma quanto è difficile? “Intanto bisogna “vendicarsi” – suggerisce Abate – E la migliore vendetta contro chi vuole affossare questa terra, contro la Ndrangheta è sapersi risollevare. Agire sempre nella legalità”. Poi bisogna resistere. Come l’unica colonna del tempio di Hera Lacinia rimasta sul promontorio di Capo Colonna: “E’ lì da quanti secoli? Se ha resistito lei (non essa) possiamo resistere anche noi”.
Prima di lasciarlo andare via, verso l’aeroporto, gli chiediamo un commento sull’incontro con i ragazzi. Ci parla mentre scrive una dedica sulla copia del suo ultimo libro per Francesco Verri, presidente del Club Velico di Crotone. “Una giornata straordinaria. Gli studenti – ci dice – hanno saputo leggere in maniera davvero profonda il mio libro e sono stati coinvolti in una piacevole discussione su quelle che sono le nostre ricchezze e sull’urgenza che abbiamo di difendere questa nostra terra da parte di chi invece vuole sfruttarla, costruendo magari una selva di pale eoliche o trivellando nel Mare Nostro danneggiandolo probabilmente in maniera perenne. Noi dobbiamo puntare sulle risorse positive che ci sono, proprio prendendo spunto da questa bellissima esperienza sulla Vela, che si sta realizzando in questo periodo a Crotone e che sfrutta semplicemente due cose che abbiamo da sempre, il mare e il vento. Questo sì che porta ricchezza e lavoro a tantissima gente”.
E dopo queste parole, ci appare quanto mai veritiera la dedica che Abate scritto sulla copia del libro dell’avvocato Verri: “La felicità è il nostro vento sul mare”.
Francesca Caiazzo