Come costruire un’alternativa alla guerra.
di Barbara Varchetta (Pubblicista, esperta di Diritto e questioni internazionali)
Mentre il premier italiano prova a tirar su l’umore dell’intera Europa proponendo di taggare i terroristi come antidoto al male che questi potrebbero ancora causare, gli altri leader europei e lo stesso presidente Obama continuano a riunirsi, a più riprese, nel febbrile tentativo di delineare una strategia comune che possa davvero scardinare il sedicente Stato Islamico arginandone le cruente iniziative.
Ad amplificare la complessità del quadro attuale è, da poco, intervenuta la Turchia con la decisione di abbattere il jet russo che sembrerebbe averne violato lo spazio aereo travalicandone i confini.
Da un’analisi di massima, l’episodio, lungi dall’essere una dichiarazione di guerra, pare sia verosimilmente riconducibile al tentativo di affermazione interna di Erdogan nonché alla necessità della Turchia di rimarcare oltreconfine il suo ruolo predominante nei nuovi scenari mediorientali.
Precari equilibri geopolitici e fragili alleanze sono da ritenersi alla base di una crisi di difficile risoluzione. La questione che si pone non è soltanto quella che vede la comunità internazionale impegnata a fronteggiare gli abusi e le violenze del terrorismo, la privazione di un’ormai acquisita e stabile libertà, la sindrome del terrore che ogni giorno cresce tra i cittadini…
V’è di più. La partita si gioca sul campo delle alleanze e degli interessi condivisi dal maggior numero di Stati possibile: si tratta di risolvere un conflitto globale che non è soltanto uno scontro di civiltà quanto una sfida per l’egemonia ed il controllo dell’economia mondiale. Ed in quanto tale, particolarmente complesso.
In tale ottica, non si può condividere la posizione di chi fa risalire le origini di tanto male al solo conflitto israelo-palestinese tantomeno al complotto dal carattere autolesionista che gli stessi Stati Uniti avrebbero ordito ai danni di alcuni Paesi dell’Islam radicale. Polemiche vuote che non centrano il cuore del problema.
Il dato rilevante è che, dopo i fatti di Parigi, l’Occidente ha compreso di aver sottostimato l’entità della minaccia e, finalmente, ha avvertito l’esigenza di offrire una risposta corale, operata col contributo di ogni singolo Stato nel nome di una ritrovata Unione Europea il cui carattere unitario non ha mai dato, almeno ad oggi, prova di sé.
In questo contesto si incardina la figura di una Russia disposta ad intervenire contro l’IS dispiegando le sue forze militari e, probabilmente, assecondando persino l’uscita di Assad richiesta dagli USA, non prima, però, di aver avuto garanzia di assistenza da parte di questi ultimi sul futuro del governo siriano. Le lessons learned di Iraq, Libia ed Afghanistan non dovrebbero consentire altri interventi militari senza una strategia di lungo periodo.
Appare ormai chiara la posizione degli Stati Uniti: Obama non intende intervenire in Medio Oriente, ed in particolare in Siria, in assetto “boots on the ground” (con gli stivali a terra) ovvero impegnando uomini e risorse in conflitti diretti, almeno a breve termine. I conflitti asimmetrici continueranno ad occupare il Governo americano che tenterà la loro “microgestione” in collaborazione con le forze alleate locali.
Per ciò che attiene al macrosistema strategico, invece, se fosse confermata la stabile vicinanza della Russia nella lotta al terrorismo, essa consentirebbe di delineare un nuovo profilo di alleanze con i Paesi filo-sovietici, finora ostili agli USA: ciò si tradurrebbe nella concreta possibilità di arginare la faida jihadista. (Dire)