Covid e altre epidemie in Africa: nuovo laboratorio specializzato per combatterle, con ONG Magis
Un laboratorio di analisi biomediche utilizzato come strumento di lotta al Covid-19 e, insieme, come centro di ricerca e monitoraggio per le malattie tropicali – come la malaria, la tubercolosi, l’AIDS-HIV, le epatiti, la Chikungunya – che continuano a mietere vittime.
È questo il nuovo e innovativo progetto avviato all’Ospedale universitario Le Bon Samaritain, situato a N’Djamena – capitale del Ciad, nel centro dell’Africa – grazie alla Fondazione Magis, ONG dei gesuiti con sede a Roma che promuove attività di cooperazione internazionale attraverso l’impegno di gesuiti e di laici in varie parti del mondo, con l’obiettivo di sostenere le comunità locali nel diventare protagonisti di uno sviluppo sostenibile.
L’obiettivo del laboratorio è garantire l’assistenza ai più vulnerabili, concentrandosi sull’attuale situazione emergenziale causata dalla pandemia ma senza dimenticare l’impatto di quelle malattie che in Africa provocano migliaia di morti ogni anno.
Dotato di moderne attrezzature in grado di realizzare indagini sierologiche e tamponi in tempi brevi, il laboratorio effettua anche studi e ricerche sul Covid-19, fondamentali per monitorare i contagi ed effettuare analisi attendibili, oltre che permettere uno screening di massa della popolazione.
Inoltre il laboratorio di analisi è in grado di intervenire su altre gravi malattie che colpiscono il Ciad; ne è un esempio la malaria, che costituisce il 50% delle patologie più diffuse nel Paese e, come in molti Paese dell’Africa subsahariana, è la principale causa di morte.
Oltre alla costruzione del laboratorio specializzato, Fondazione Magis ha ampliato il progetto dedicato all’Ospedale con l’allestimento di un’unità di terapia sub intensiva (con 4 letti), la dotazione di attrezzature elettromedicali, la ristrutturazione di spazi adibiti alla formazione (sale universitarie e alloggi per gli studenti) e il supporto ai Centri nutrizionali infantili. Fondamentale è infine la formazione del personale sanitario locale: 90 professionisti tra medici, biologi, tecnici di laboratorio e infermieri, più 450 studenti universitari in Medicina.
Il progetto gode del finanziamento dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e della stretta collaborazione della task force del Ministero della Sanità Pubblica ciadiano in risposta al Covid-19, oltre che dell’Università statale e varie strutture sanitarie.
Il presidente di Fondazione Magis, Ambrogio Bongiovanni: “La pandemia da Covid-19 ha portato all’attenzione pubblica mondiale la salute come bene primario e universale da non affrontare con logiche localistiche. I Paesi ricchi del mondo devono riflettere sull’emergenza sanitaria che stanno vivendo in questo particolare momento storico capendo che è una situazione cronica in altri Paesi del mondo dove il diritto alla salute di base è negato a causa di povertà, guerra, sfruttamento e insensibilità internazionale. Il progetto del nostro laboratorio Ciad è un segno concreto di come sia possibile ridurre le distanze. Operiamo quindi ogni giorno affinché il diritto fondamentale alla salute di qualità per tutti diventi una priorità dell’agenda politica di ogni Stato, in accordo con il terzo obiettivo dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile approvata dalle Nazioni Unite”.
In Ciad la prima ondata della pandemia da Covid-19, a marzo 2020, è stata drammatica, con i pochi ospedali pubblici totalmente impreparati a gestire l’epidemia. Racconta direttamente dal Ciad Sabrina Atturo, responsabile Progetti di Fondazione Magis: “La preoccupazione era grande fin dall’inizio per tutti i nostri partner nel Sud del mondo, che hanno sistemi sanitari fragilissimi. Ci siamo quindi subito mobilitati, prima inviando attrezzature e dispositivi di protezione e poi costruendo il laboratorio specializzato. L’impegno contro il Covid-19 è stato e rimane importante, e intanto manteniamo alta l’attenzione su tutte le altre epidemie che a livello internazionale sono sempre poste in secondo piano”.
La seconda ondata, iniziata nel gennaio 2021, è stata più controllata grazie a un numero maggiore di biologi capaci di diagnosticare la malattia.
Secondo i dati dell’OMS sul Covid-19, l’Africa registra il 3% dei contagi e dei decessi mondiali: un impatto meno devastante rispetto a quanto previsto a inizio pandemia. Le ipotesi sulla minore diffusione del virus sono diverse: il clima caldo, la giovane età della popolazione e la sua immuno-resistenza naturale al virus, la scarsa densità abitativa nelle zone rurali e la ridotta mobilità all’interno del Paese. Inoltre, spiega Vittorio Colizzi, consulente sanitario del progetto e docente di Immunologia e Patologia presso l’Università di Roma Tor Vergata: “Il dato epidemiologico che la zona saheliana sia la meno colpita da Covid-19 potrebbe essere dovuto a una maggiore capacità di regolare lo stimolo infiammatorio indotto dal virus nel polmone. La presenza di polvere e di sabbia che fin da piccoli gli africani inalano nel polmone potrebbe aver indotto una maggiore capacità di controllo della risposta infiammatoria. L’arrivo del virus, che induce infiammazione polmonare, è quindi compensato da una maggiore attività antinfiammatoria sviluppata”.
L’emergenza in Ciad, anche se più contenuta rispetto ai pronostici, si inserisce in un quadro sanitario già fragile, a cui si sommano conseguenze sociali ed economiche che destabilizzano e impoveriscono ulteriormente la popolazione. Basti pensare che 23 è la soglia che l’OMS ha fissato per il numero di medici e infermieri che devono essere disponibili ogni 10mila abitanti. In Ciad sono solo 3, sempre ogni 10mila abitanti: su una popolazione di oltre 16 milioni di persone, si contano 5mila infermieri e solo 700 medici.
Conclude il prof. Colizzi: “Come tutto il mondo, ora l’Africa è di fronte alla sfida dei vaccini, che stanno arrivando con il contagocce. Il principio della salute globale che il Covid-19 ci ha fatto scoprire potrebbe portare a una maggiore consapevolezza che queste pandemie sono debellabili purché siano gestite con il medesimo spirito universale, proprio come è stato fatto con l’AIDS e l’ebola”.