Del Grande: “Non sono un eroe”
ROMA – “Non mi piace l’idea di essere accolto come un eroe” piuttosto “voglio essere giudicato in base a lavoro che faccio e che farò”. Così Gabriele Del Grande, il documentarista e scrittore liberato dalla Turchia e giunto ieri in Italia, in conferenza stampa a Roma. “Giudicatemi quando usciranno le storie a cui sto lavorando”, aggiunge Del Grande.
Rispetto a quanto accaduto “come ho detto anche ai poliziotti che mi hanno portato in aeroporto quando ci siamo salutati, vado via dalla Turchia ma non vedo l’ora di tornare, e ho detto loro che andavo via nonostante tutto con un sentimento di rinnovata amicizia verso il popolo turco”, spiega Del Grande, perché “al di là dell’aspetto politico non è stato un incidente fra popoli, è stata una violenza istituzionale con una sospensione del diritto” e in tutto ciò “né io né i miei avvocati abbiamo ancora accesso al fascicolo”.
Intanto, però, ribadisce Del Grande, “non voglio essere preso come l’unico” ad aver subito un trattamento del genere, “è pieno di giornalisti bravissimi e preparatissimi che questo atto di resistere lo compiono quotidianamente, ma magari non fanno notizia perché non hanno la sfortuna o l’azzardo di finire 15 giorni in galera” e “quell’atto di resistere si fa quotidianamente per quanto riguarda la categoria nel raccontare, soprattutto le storie che non vogliano si raccontino”.
In Turchia “sono entrato con un passaporto regolare e un timbro regolare, non ero intenzionato ad andare in Siria e non sono stato fermato al confine”, spiega Del Grande.
“Non ho ancora avuto accesso al mio fascicolo, né io né i miei avvocati, quindi non so perchè sono stato fermato”, aggiunge Del Grande, quindi si è trattato di “una violazione molto grave delle libertà fondamentali, sia come individuo che come giornalista”.
“Faccio un lavoro piu simile a quello di un ricercatore, cose meno avventurose di quel che potete immaginare, vado a casa delle persone e chiedo informazioni”, racconta Gabriele Del Grande,.
“Non avevo nemmeno la macchina fotografica”.
In Turchia “il mio progetto era quello di intrecciare biografie e storie personali di persone che vivono in una zona dove si sta scrivendo la storia“, racconta ancora.
“Non sono stato fermato al confine ma in una città lungo il confine- prosegue- stavo mangiando in uno dei migliori ristoranti della città con una mia fonte”, ma poi “sono arrivati otto agenti in borghese, ci hanno mostrato i distintivi, poi siamo stati caricati su due auto diverse, senza nessun contrassegno delle forze dell’ordine, e siamo stati portati in quella che apparentemente era una stazione polizia, poi sono cominciati gli interrogatori”.
In tutto ciò “il clima era strano, all’inizio sembrava una sciocchezza, loro sdrammatizzavano la situazione e all’inizio anche il mio atteggiamento era collaborativo, hanno guardato il computer e le foto, ma non c’era nulla di strano, poi il trasferimento”, prosegue Del Grande.
Gli agenti “volevano sapere con chi avessi parlato, se avevo contatti in Siria– racconta ancora- e cercavano sul telefono l’evidenza di contatti con la Siria”.
A questo punto “se oggetto della vicenda e delle domande era il mio lavoro, ho detto che non avrei parlato senza il mio avvocato e senza contatti con il consolato“, aggiunge, ma “non immaginate interrogatori sotto tortura” perché “non ho mai subito nessuna violenza”.
I giornalisti in carcere in Turchia sono 164, “io sono il numero 165 e il caso più fortunato” quindi a quel Paese “faccio appello perché liberi tutti i giornalisti”.
“Non è accettabile che si possa essere incriminati per il lavoro che si svolge”, aggiunge Del Grande.