La storia di Elena: obbligata dopo parto a trasfusioni, vince in tribunale
La donna Testimone di Geova aveva espresso diniego e magistrato non aveva autorizzato i medici
“Me la vedo io con il tuo Dio” . E’ la frase che un medico rivolge ad Elena (nome di fantasia) mentre la obbliga a ricevere una trasfusione di sangue a cui lei si è opposta in tutti i modi negando da sempre il suo consenso come Testimone di Geova per ragioni di fede. Solo che in quelle ore questa giovane donna, che ha da poco partorito con un cesareo, è intubata, ferma in un letto per quanto cosciente e i medici, a fronte di alcune criticità emerse dopo il parto, decidono che debba essere trasfusa contro la sua volontà e lo fanno nonostante il magistrato, a cui i sanitari si erano rivolti, non li avesse autorizzati a procedere. Il Tribunale di Milano, in corte d’appello ad ottobre 2022, le ha dato ragione: Elena è stata violata nella sua integrità di persona e nel suo diritto alla libertà di credo e all’autodeterminazione. La sentenza stabilisce un risarcimento di 40mila euro e soprattutto fissa per sempre l’abuso che Elena ha subito.
A raccontare questa storia è l’avvocata Laura Mattei, che ha collaborato alla difesa della donna, in occasione del convegno del centro studi Lirec che si è svolto all’Ateneo Pontificio Salesiano proprio sui diritti della persona e la libertà di credo e la sua tutela.
Il caso di Elena, presenta l’avvocato, è emblematico proprio perché mostra “l’eventuale conflitto tra diritti: l’autodeterminazione del paziente, il suo diritto alla salute, l’operatore sanitario e il dissenso religioso” e come la legge, se pur in fasi diverse e complesse, lo abbia ‘risolto’.
– “Elena, Testimone di Geova deve partorire con un cesareo programmato- ricostruisce nel racconto il legale- e voglio dire che i Testimoni di Geova non prendono a cuor leggero il diniego alle trasfusioni che per loro è basato su un principio biblico”, precisa Mattei ricordando che oggi è proprio l’Oms a riconoscere che la medicina senza sangue apporta dei benefici ai pazienti.
“La donna presenta le sue disposizioni di trattamento. Dopo il parto ha purtroppo un’emorragia e viene fatta una laparotomia da cui i medici ritengono necessaria un’emotrasfusione. Elena dice di no scuotendo la testa, i medici si rivolgono al magistrato ma non ottengono l’autorizzazione e nonostante questo agiscono. La neomamma subisce 25 trasfusioni anche irrisa dai medici”, come risulta agli atti.
Elena si rivolge al Tribunale: perde in primo grado, anche in appello. Nessun risarcimento per aver subito un trattamento sanitario contro la sua volontà. Ma la Cassazione con la sentenza 29469/2020 ribalta tutto: bisogna “rispettare non solo il corpo, ma la persona in interezza” è il principio cardine che fissa. Quella di Elena “è obiezione di coscienza non mera autodeterminazione sanitaria”, spiega l’avvocata leggendo passaggi della sentenza.
Il processo torna in appello dove appunto Elena vede riconosciuto il diritto negato ad esercitare la propria obiezione di coscienza, la propria libertà di credo e autodeterminazione. L’avvocata conclude ricordando le parole di Platone quando scriveva che esistono due tipologie di medici: quello degli schiavi, che non ascolta e obbliga ai trattamenti, e l’altro tipo che invece ascolta la persona e cerca il trattamento sanitario personalizzato: quello è il medico degli uomini liberi.