Mauro Palma, primo Garante nazionale dei detenuti. “Il mio mandato? Inizia dagli hotspot”
ROMA – “Comincerò il mio mandato dagli anelli più deboli della catena”. Dopo aver fondato l’associazione Antigone e aver visitato i luoghi di detenzione di tutta l’Ue, come presidente del Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti del Consiglio d’Europa, Mauro Palma è da pochi giorni il primo Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Sarà suo compito, quindi, tutelare non solo le persone che vivono nelle carceri italiane ma anche coloro che sono in custodia nei luoghi di polizia, che vivono nei Centri di identificazione ed espulsione, o nelle strutture sanitarie in seguito a trattamenti sanitari obbligatori e a misure di sicurezza psichiatriche (Opg e Rems). Ed è proprio da queste ultime strutture che il Garante ha intenzione di iniziare a vigilare, come spiega in questa intervista rilasciata all’Agenzia Redattore Sociale.
Lei è il primo Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, istituito in Italia. Da dove pensa di iniziare il suo mandato?
La fase iniziale sarà prodromica all’attività diretta. Cercheremo di far conoscere l’istituzione anche per stabilire un rapporto. La nostra attività, di monitoraggio e di analisi, è totalmente indipendente, noi facciamo visite non annunciate nei luoghi. Ma è necessario anche che l’interlocutore si senta riconosciuto e rispettato nel suo lavoro, e che capisca che questo non aiuta soltanto le persone che stanno dentro ma anche il sistema nel suo complesso, a essere più rispettoso de i diritti delle persone. Dopo la fase iniziale, del farsi conoscere, seguirà una fase di coordinamento delle realtà dei garanti regionali che già esistono. Inizialmente nel nostro mandato ci rivolgeremo di più a quelle regioni dove la figura del garante non esiste. Questa è una priorità geografica. Da un punto di vista tematico, invece, la prima cosa da esaminare è la questione massiccia della detenzione migranti, un’ area su cui dobbiamo intervenire con una certa urgenza, cioè sui cosiddetti hotspot, che vengono richiesti dall’Unione europea. Su questi centri bisogna capire e vedere. Alcuni sono in Sicilia, una regione dove non c’è il garante: in questo caso dunque urgenza geografica e urgenza tematica coincidono.
Negli hotspot, diverse violazioni sono state denunciate dalle associazione, in particolare riguardo alla procedura e all’informativa. Vi concentrerete su questo?
Sì, andremo a verificare se è stato negato l’accesso ai tre diritti fondamentali che devono essere sempre presenti. Innanzitutto quando una persona è privata libertà è in una posizione giuridica che prevede la presenza di un magistrato, non può essere solo trattenuto. C’è poi il diritto a comprendere, dove è stato collocato e perché, deve cioè capire la procedura, quindi il soggetto va adeguatamente informato. Il terzo aspetto discende da questa informazione e cioè al soggetto deve essere data la possibilità, nel concreto, di fare richiesta per essere riconosciuto come rifugiato. Oltre a questo, non deve essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, o addirittura a violenza. Questi diritti nella foga degli alti numeri delle persone che arrivano, spesso non sono realmente tutelati. Dopo aver insediato l’ufficio, quindi, cominceremo a muoverci in coordinamento con i garanti regionali per coprire tutto il territorio nazionale, e in particolare le zone che attualmente non sono coperte. E iniziare la funzione di garanzia dagli anelli più deboli della catena.
Oltre agli hotspot, l’altra questione aperta riguarda gli Opg, che da un anno dovevano essere chiusi. Ci sono ancora quattro strutture superstiti, andrete a visitarle?
Sì, gli opg non sono ancora stati tutti chiusi: in alcune regioni non sono state ancora attivate le Rems, e così le persone sono rimaste negli ospedali psichiatrici giudiziari. E’ una detenzione che non ha base legale. Sono rimaste circa 170 persone negli Opg ma mi auguro che nel tempo in cui noi ci insedieremo, diciamo quindici giorni circa, una soluzione sia stata trovata. Dopodiché ritengo che anche le Rems vadano visitate.
Nella sua lunga carriera, lei si è sempre occupato di detenzione e diritti umani. Uno dei suoi ultimi incarichi è stato quello di presidente della Commissione ministeriale sul sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani. Un tema di cui oggi si parla molto poco. Ma qual è oggi lo stato di salute della carceri italiane?
Come speso succede in Italia la situazione carceraria è a macchia di leopardo. Risente positivamente dell’aver superato la questione più stringente della crisi numerica. Quando c’è stata la sentenza Torregiani avevamo quasi 67mila persone in carcere e 45 mila posti. Adesso abbiamo 52.500 persone in carcere e solo 49mila posti. Questo vuol dire che abbiamo molto avvicinato questi due numeri ma essi non coincidono ancora. Anzi, nella realtà le persone presenti dovrebbero essere meno della capienza teorica. Per intenderci, se ho 100 posti a un femminile e 70 donne dentro, non è che se ho l’esigenza di trovare un posto a 30 detenuti maschi li posso mettere lì. Se un sistema ha capienza 100 deve avere detenuti 95. Quindi ci siamo molto avvicinati ma c’è ancora molto da fare. Possiamo però anche dichiarare una certa soddisfazione perché la situazione è meno pressante per chi vi opera e il sistema è più sicuro per la comunità esterna. Inoltre quando avevamo 67 mila detenuti avevamo 19 mila persone in misura alternativa, oggi con 52.500 persone detenute quelle in misura alternativa sono 32 mila. L’area del controllo non è tanto cambiata, ma all’interno dell’area del controllo è cambiato il rapporto tra detenzione e misure alternative. Dal punto di vista, invece, della qualità della vita all’interno del carcere, e cioè del come si vive, il discorso è ancora molto insoddisfacente. Cerchiamo ora di intervenire su questo, il ministero della Giustizia ha investito molto sugli Stati generali dell’esecuzione penale, un’operazione che non va sottovalutata perché ha fatto discutere in 18 tavoli almeno 200 persone, tutte con provenienze molte diverse, dal giuristi al magistrato al volontario. Persone che generalmente stanno dentro i propri steccati e che invece hanno dovuto trovare un linguaggio comune. Dover dialogare è il primo passo per quell’approccio diverso che si deve avere sulla vita detentiva. Non ci può essere più la divisione manichea tra i supposti buoni e i supposti cattivi. Questa operazione degli Stati generali non è la soluzione ma la premessa per cercare soluzioni e cambiare la vita in carcere. Solo così cambia anche la qualità.
A proposto degli Stati generali, tra le proposte che sono emerse con più forza c’è l’implementazione del lavoro dei detenuti e l’incentivo all’utilizzo delle misure alternative. Lei condivide l’idea che bisogna partire da questi due aspetti per migliorare la vita delle persone in carcere?
La questione relativa all’esecuzione panale esterna è secondo me un punto essenziale ma bisogna trovare le risorse. Un conto è dichiarare la sua centralità, un conto è che nello stanziamento in bilancio questa centralità si riproduca. Come dicevo, i 67 mila detenuti e 19 mila alternativi di qualche anno fa sono diventati oggi 52 mila detenuti e 32 mila misure alternative. Ma non credo che gli stanziamenti in bilancio abbiano seguito questo spostamento. Le misure alternative richiedono un investimento, che è un investimento decisivo: se si investe nel sociale, in un sociale ricco dal punto di vista delle possibilità offerte, poi saranno meno dispendiosi sia il carcere che l’area delle marginalità. Bisogna molto spingere su questo tema ma con stanziamenti adeguati. Anche sulla questione del lavoro sono pienamente d’accordo, a patto che sia veramente lavoro. Su questo la Corte costituzionale è stata sempre molto chiara: il lavoro in quanto tale ha una sua fisionomia, dei diritti e doveri da rispettare. Dobbiamo, invece, stare molto attenti all’idea che si può riassumere nella frase ‘purché i detenuti facciano qualcosa’, che sembra rassicurare l’opinione pubblica, ma non serve niente. Il lavoro deve essere pensato perché salvi una continuità anche quando si esce. Lo dico brutalmente: piantiamola con la tanta ceramica in carcere, non è che poi diventano tutti ceramisti. Non è una terapia, non deve servire a tenere le persone impegnate ma dobbiamo costruire qualcosa che dia strumenti per essere pienamente soggetti. Dobbiamo passare da un modello di detenzione infantilizzante, in cui è l’amministrazione che ti propone tutto e ti viene solo chiesto di aderire, a situazioni responsabilizzanti in cui ti viene chiesto di metterti in gioco. (Agenzia Redattore Sociale)