Minori in carcere e radicalizzazione, Cascini: “In Italia nessun allarme”

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ROMA – “Il rischio radicalizzazione in carcere è un problema che si pone in tutta Europa, non soltanto in Italia. Da noi i numeri sono un po’ più bassi ma non significa che il problema non ci sia”. Lo dichiara Francesco Cascini, esperto di terrorismo islamico, autore di numerosi studi e pubblicazioni, dopo la girandola di dati pubblicati negli ultimi giorni sul rischio radicalizzazione nelle carceri minorili italiane. Prima destinazione: sostituto procuratore nella Locride, poi una serie di incarichi prestigiosi all’interno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Fino alla nomina, nell’estate scorsa, a Capo dipartimento della Giustizia minorile e di comunità.

Quanto è alto il rischio radicalizzazione nei nostri istituti minorili e quali sono i numeri a oggi?
I detenuti, tra giovani adulti (fino ai 25 anni) e minorenni, in tutto sono 450. Gli stranieri, in particolare quelli di fede musulmana, sono circa 120, di questi, una parte sono italiani, ragazzi di fede musulmana ma nati in Italia: un numero un po’ più basso rispetto ai 500 di cui si è parlato. E’ chiaro che esiste un rischio ma è difficilmente quantificabile. La radicalizzazione, come avvicinamento a una posizione estremista di tipo religioso, è una cosa reale, non soltanto in carcere. E da non sottovalutare. Tuttavia non sembra esserci un allarme in questo senso. E’ ovvio che l’attenzione resta particolarmente alta. Al di là dei numeri che sono stati indicati, credo che il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti individui un problema vero. Nella realtà in cui viviamo, i flussi migratori sono a cavallo tra la seconda e la terza generazione e cominciamo ad avere un certo numero di persone di fede musulmana che provengono dai Paesi del nord Africa. L’approccio con queste persone è un po’ diverso rispetto a quello con l’immigrato che transita di passaggio in Italia.

In Belgio e in Francia il problema è arrivato dall’interno.
Sì, ed è un fatto da tenere in forte considerazione. Da questo punto di vista condivido un po’ la preoccupazione di Roberti: bisogna ragionare sull’approccio con questi ragazzi, che sostanzialmente sono ragazzi italiani, per cercare di capire e individuare gli elementi di rischio, per poi intervenire. Vale per i servizi minorili della giustizia, ma anche per la scuola, per l’università.

Dopo gli attentati di Bruxelles avete adottato misure diverse rispetto al passato?
Il primo obiettivo della nostra organizzazione è tentare il più possibile di produrre elementi di accoglienza, di reinserimento o di inserimento di questi giovani nel nostro tessuto sociale. L’emarginazione, la solitudine e le difficoltà rischiano di essere il terreno sul quale si coltiva l’odio. C’è prima di tutto bisogno di creare un clima che consenta a questi ragazzi di sentirsi accolti. Uno degli elementi che più favorisce la radicalizzazione è quello della contrapposizione di un sistema che si pone in modo poco amichevole: nei percorsi di estremismo si vede l’Occidente come un nemico, lo stato italiano come un nemico. Per evitare questo percorso uno dei modi principali è proporsi tendendo una mano più che spingendo lontano. Contemporaneamente si deve continuare a lavorare su una formazione del personale sempre più importante per consentire ai nostri operatori di individuare con tempestività gli elementi di rischio. Rispetto ad altri Paesi, non abbiamo condizioni ghettizzanti che possono favorire fenomeni come in Francia: abbiamo un sistema di integrazione che nonostante qualche problema funziona ancora.

Carcere adulti e carcere minorile: il rischio è lo stesso?
No, c’è una forte differenza. Ma attenzione, per i minori non si deve parlare solo del carcere: noi abbiamo un numero molto alto di minorenni e giovani adulti nei nostri circuiti (comunità, centri di prima accoglienza ecc.). La differenza sta in questo: gli adulti sono quasi sempre extracomunitari clandestini o irregolari, spesso di passaggio, provengono dal Maghreb (Marocco, Tunisia, Egitto) con una fragile posizione sociale e culturale.
Il reclutamento di queste persone è molto vicino a quello delle organizzazioni criminali: meno ideologico perché riguarda soggetti poco strutturati dal punto di vista religioso e spesso disperati. Rischiano di aderire più per convenienza che per una questione ideologica. Tenendo conto di questo, i segnali da ricercare non sono quelli classici: al contrario di quello che si potrebbe pensare, chi si radicalizza non manifesta segnali esteriori, anzi. Anche perché non tutti vengono reclutati per andare a fare i kamikaze: i ruoli dentro queste organizzazioni sono numerosi.Per i minori è molto diverso perché vivono in un contesto rispetto al quale è molto più forte il fascino dell’ideologia. Risentono molto di più della propaganda jihadista su internet, sono molto più attratti da un certo modo di interpretare la religione. Il loro è un rischio di radicalizzazione violenta molto più ideologico e per questo anche più insidioso.

Quali sono i due metodi di approccio?
Mentre per gli adulti è più difficile contenere i rischi della radicalizzazione con l’illusione di poter controllare il meccanismo religioso, per i minori è molto importante ragionare sulla formazione culturale e religiosa, oltre che sul clima sociale, visto che questi ragazzi vivono e vanno a scuola in Italia. La figura del mediatore culturale in questo percorso è indispensabile.

La maggiore presenza di mediatori culturali nelle carceri è sollecitata da più parti, non ultimi gli Stati generali sull’esecuzione penale, ma è sul tavolo da tempo. Perché non si è intervenuti prima, a fronte di una popolazione carceraria adulta composta dal 33 per cento di stranieri, molti dei quali di fede musulmana?
Per gli adulti i mediatori sono pochissimi. Per i minori venivano utilizzati anche prima in modo abbastanza consistente e io sto tentando di implementarne ulteriormente l’impiego. Fortunatamente i minori sono un po’ meno e abbiamo forse un po’ di risorse in più rispetto agli adulti.

Famiglia, minori e reinserimento: nel caso delle organizzazioni mafiose si tende ad allontanare il ragazzo dalla famiglia d’origine, se coinvolta. Per il terrorismo islamico si procede allo stesso modo?
Casi accertati di radicalizzazione si contano sulle dita di una mano. In ambito minorile, da quando io sono qui si è verificato solo qualche episodio. Abbiamo individuato degli elementi di rischio ma sono casi molto limitati. Per questi ragazzi siamo intervenuti con un nutrito programma che è possibile attuare perché i numeri sono bassi. Un programma che coinvolge anche le famiglie, ma non tutti i casi sono simili. E’ certo, comunque, che in tutti i percorsi devono essere coinvolte le famiglie perché è molto difficile fare un’opera di reinserimento sociale creando una frattura con i genitori, soprattutto se parliamo di adolescenti.

Come si è evoluto il terrorismo islamico? Quanti sono oggi i detenuti per terrorismo internazionale?
Sicuramente c’è stata una evoluzione abbastanza forte del fenomeno. Al Qaeda aveva un’organizzazione molto più simile a quella delle organizzazioni criminali mafiose: molto chiusa e strutturata. Quando abbiamo iniziato a lavorare su questi temi, i detenuti per terrorismo internazionale in Italia erano circa 120 (anni 2008/2009) ed erano riconducibili ad Al Qaeda. Oggi ne abbiamo 22. Il numero è diminuito molto ma non perché siano diminuiti i rischi. Al Qaeda aveva una struttura molto più organizzata di quella attuale. L’adesione allo Stato Islamico è spontaneistica. Non c’è controllo delle organizzazioni sul territorio. L’affiliazione ha percorsi molto più flessibili e molto più evanescenti. Sono spesso gruppi autonomi, senza una regia unica, e più difficilmente individuabili: questo è il motivo per cui si hanno meno arresti. (Agenzia Redattore Sociale)