Nascere in famiglia di Ndrangheta. “Il mio cognome un peso, Sono nato libero e ho smesso di esserlo il giorno dopo”
ROMA – “Sono nato libero e ho smesso di esserlo il giorno dopo. Non ho scelto in che famiglia nascere, ma ho potuto scegliere cosa diventare”. Carmelo Gallico, classe 1963, è nato a Palmi in una famiglia ‘ndranghetista. “Mio padre è stato coinvolto in una faida. Quando è morto mio fratello non avevo neanche quindici anni. Lui per me era tutto. Perché è stato ucciso? È così drammatica la realtà del momento che non puoi neanche farti certe domande. Il dolore si appiccica addosso. E quel dolore diventa un collante all’interno della famiglia”. Dopo la morte del fratello, ad appena dieci giorni dall’omicidio, la famiglia di Carmelo scappa nella Marche, ma anche lì arriva la ’ndrangheta: mettono una bomba sul davanzale della casa. “Ho capito allora che la faida ti segue ovunque tu vada e che il sangue si lava con il sangue”.
La storia di Carmelo è delle tante storie contenute nel dossier “Under”, realizzato dall’Associazione Antimafie daSud: un viaggio in cinque regioni, Calabria, Sicilia, Puglia, Lazio e Campania, per capire come un ragazzo si diventa criminali. Nel 1990 Ilario Pachì, ex presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, sosteneva che “Una cauta ipotesi da prospettare per i figli dei boss della ’ndrangheta è che essi studino per essere i futuri manager delle cosche”. Il lavoro sporco e pericoloso era appaltato ai figli “bastardi” e poveri che andavano a scuola armati di coltello o di pistola. A distanza di quasi 30 anni la frattura tra i figli d’arte e i figli di “nessuno”, sembra riprodursi in maniera identica. In Calabria nessuno si emancipa completamente prima della morte dei vecchi boss, tutti devono sudarsi la benedizione dei capi per esercitare l’autonomia criminale che invece stanno sperimentando i giovani in Campania e in Puglia.
Tra i giovanissimi i reati più diffusi in Calabria sono i furti (14%), lesioni personali volontarie (11%) e stupefacenti (8%). Solo tre reati di associazione di tipo mafioso (0,3%) nel 2016. Il nuovo modello di lotta alla ‘ndrangheta, sperimentato da Roberto Di Bella, dal 2011 presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria, passa anche per l’allontanamento dalle famiglie d’origine. Dal 2012 sono 40 i ragazzi che hanno lasciato il loro nucleo familiare.
Non è stato così per Carmelo: “Il mio cognome per la storia che si porta dietro è un peso. È stato quasi una tomba perché ha soffocato la mia vita: se dovessi cambiare qualcosa, non cambierei le persone in sé, ma la storia della mia famiglia. Gli affetti non devono essere cambiati. È fondamentale poter essere se stessi e avere il diritto di poter amare le persone che sono la tua famiglia. I miei fratelli sono in carcere. Hanno avuto dei processi, stanno scontando la loro pena. Uno non lo abbraccio da ventisei anni. Un altro da diciotto. Ma sarebbe stato troppo semplice andar via. Ho deciso di rimanere perché è come se tu fossi su una barca che affonda e decidessi di salvarti lasciando affogare la tua famiglia. Non puoi, devi restare: quello è il tuo destino”. (Agenzia Redattore Sociale)