Prima comunità per eroinomani afgani: gli operatori arrivano da Scampia
Per i media ormai è la “pillola del Jihad”: prima ancora del fervore integralista, sarebbe stato il Captagon – stimolante a base d’amfetamina brevettato nel ’61 – a far perdere ogni freno inibitore ai tagliagole dello Stato islamico. E non stupisce poi molto che il principale centro di produzione e contrabbando della sostanza si trovi in realtà dall’altra parte della barricata: vale a dire a Qusayr, terra di confine siro-libanese controllata dalle milizie sciite di Hezbollah; ovvero dai più fidi alleati del regime di Basar al-Assad, i cui stessi militari pare ne facciano ormai un uso smodato.
Fin dai tempi di Alessandro Magno, gran parte dei conflitti armati è stata attraversata, nutrita o finanziata dagli stupefacenti: se nelle trincee di Vittorio Veneto era la grappa a infondere coraggio alle truppe italiane, la seconda guerra mondiale fu testimone di un boom di amfetamine tra i soldati tedeschi; mentre trent’anni dopo almeno un quarto dei reduci sovietici e americani tornarono da Afghanistan e Vietnam con un serio problema di dipendenza dall’eroina, la cui importazione verso occidente esplose proprio in prossimità dei due conflitti.
A ripercorrere quella lunga storia è ora Alessandro De Pascale, giovane reporter salernitano che al tema ha dedicato gran parte delle sue inchieste; e che due giorni fa, a Pisa, ha inaugurato una lunga serie di incontri gratuiti (“La guerra con la droga”, ciclo di workshop sugli stupefacenti nei conflitti armati), che dal prossimo gennaio lo porteranno in giro per tutto il paese.
Nel 2013 De Pascale volò in Afghanistan per un’inchiesta e si trovò di fronte a una situazione “surreale”. “In tutto il paese – racconta – c’era un enorme boom d’eroina, che veniva consumata a cielo aperto nei parchi e nelle pubbliche piazze: a Kabul e Herat c’erano folle di giovani che si bucavano perfino di fronte alle sedi ministeriali; e le istituzioni erano del tutto impreparate a fronteggiare una simile emergenza”. Così, mentre il libro nato da quel viaggio si trasformava in un piccolo best seller, De Pascale è tornato a Herat per aprire la prima – e tuttora unica – comunità di recupero del paese: un compound protetto con oltre cento posti letto, gestito da medici afghani e iraniani, “della cui formazione – spiega il reporter, con una punta d’orgoglio – si sta occupando un gruppo di operatori che si sono fatti le ossa a Scampia”.
De Pascale, tra gli obiettivi dichiarati dell’invasione afghana c’era proprio la distruzione o riconversione, almeno parziale, delle colture d’oppio. Stando a un rapporto Onu, però, nel 2014 la produzione ha toccato livelli mai raggiunti prima: cosa è andato storto?
Quello che molti sembrano aver dimenticato è che, appena saliti al potere, per tutta una serie di ragioni legate al consenso e alla politica internazionale, i Talebani si opposero alla coltivazione d’oppio: all’epoca, il paese ne produceva un quantitativo infinitesimale rispetto a oggi. Nel 2009, quella cifra era aumentata di 48 punti percentuali, e l’Afghanistan era diventato il primo paese produttore al mondo. Come in Sicilia negli anni ’80, a fare la differenza fu la creazione di raffinerie in loco. Mi pare evidente che se quella missione un effetto lo ha avuto, è stato di stimolare un boom del narcotraffico.
Colpa della coalizione internazionale?
Colpa della guerra, semmai. Non ho mai cercato il grande complotto nel mio lavoro, la dietrologia non mi interessa. Nel 2013 andai a Herat perché c’erano indizi concreti del coinvolgimento di alcuni soldati italiani in un traffico d’eroina; ma fu proprio un agente del Servizio segreto militare a farmi da mentore in quell’inchiesta. E quando decisi di cercare di dare una mano, impiantando una comunità in loco, ad aiutarmi e finanziarmi fu ancora una volta il contingente italiano. La verità è che guerra e stupefacenti vanno a braccetto da tempo immemore: la maggior parte dei gruppi armati clandestini, ad esempio, si finanzia col narcotraffico. Quando scoppia una guerra in un paese produttore, due fatti sono destinati ad accadere: da una parte ci sarà un incremento della produzione; dall’altra, molti soldati sul campo inizieranno ad abusarne, fino a diventarne dipendenti. Oggi si fa un gran parlare del Captagon e delle droghe dei jihadisti; ma esistono esempi molto più illustri, in proposito.
Come il Vietnam o le due guerre in Afghanistan?
Non solo. Penso soprattutto allo stato maggiore americano, che nella prima guerra del Golfo ha introdotto e autorizzato l’uso delle cosiddette go-pills. Si tratta di pillole stimolanti, perlopiù a base di dexedrina, che vengono somministrate ai piloti di caccia che devono percorrere distanze molto lunghe per andare a bombardare. Una mossa che ha avuto conseguenze disastrose, e ampiamente documentate, sulla psiche di molti soldati: depressioni, psicosi, casi di suicidio; per non parlare degli incidenti sul campo. Ma nonostante tutto, l’esercito americano non è mai tornato sui suoi passi.
Sono affermazioni molto pesanti…
Si tratta di una delle parti più complicate del mio workshop, perché è una faccenda così assurda da risultare quasi incredibile. Ma, ancora una volta, parliamo di storia, non di dietrologia: c’è tutta una serie di documenti ufficiali che provano come i soldati americani siano incoraggiati ad assumere queste sostanze; e che dimostrano, inoltre, l’atteggiamento quasi schizofrenico dell’esercito americano nei confronti delle droghe. Perché nel consenso informato che ogni militare deve firmare al momento di assumerle, c’è scritto che la Us Drugs and Food administration non ne approva l’uso per combattere la stanchezza. In questo modo, i soldati sono impossibilitati a far causa allo Stato maggiore, qualora riportassero conseguenze; quello che l’esercito americano ha iniziato a fare, invece, è bilanciarne gli effetti collaterali con dei farmaci sedativi, le cosiddette no-go pills.
La stessa logica dei tossicodipendenti, che bilanciano il down degli stimolanti con l’eroina…
Da sempre gli stupefacenti vengono utilizzati come forma di automedicazione; e le guerre non potevano certo fare eccezione. Durante un conflitto armato si è esposti per lunghi periodi ad atrocità che normalmente sarebbero insopportabili. In qualche modo ci si fa l’abitudine, ma ciò significa imparare a convivere con forme di psicosi come il disturbo post traumatico da stress. Attorno al 2006, nei mercati pubblici di Baghdad è stato documentato un fiorente traffico di psicofarmaci, che venivano venduti a manciata e senza ricetta, a normalissimi padri di famiglia che altrimenti non avrebbero più potuto neanche alzarsi dal letto: questo, purtroppo, dimostra come i civili siano altrettanto esposti a tutto questo.
L’esercito italiano come si inserisce in un quadro del genere?
C’è tutta una serie di processi e testimonianze che indicano come anche i nostri soldati abbiano abusato e – con ogni probabilità – trafficato eroina in Afghanistan. Nel 2011, Alessandra Gabrielli, una paracadutista italiana, venne arrestata a Genova con l’accusa di spaccio: è noto che, quando analizzarono la sostanza che le fu sequestrata, al laboratorio fecero ritarare le macchine, perché non ne avevano mai vista di così pura. Nei verbali, Gabrielli raccontò di come ad iniziarla all’eroina fosse stato un gruppo di commilitoni della missione Isaf, che facevano la spola tra Livorno e Herat. Nello stesso periodo, casi analoghi vennero fuori in altre caserme italiane, oltre che in Canada e nel Regno Unito: ma le procure militari hanno sempre rilevato le indagini, mettendole di fatto a tacere.
Le istituzioni afghane come hanno reagito, invece?
Erano totalmente impreparate a fronteggiare un’emergenza socio sanitaria di quella portata: basta pensare che il primo centro specializzato nella diagnosi e nella cura dell’Hiv in tutta Kabul ha aperto poco più di un anno fa. Non avevano alcun programma per la riduzione graduale con farmaci sostitutivi: tutto ciò che facevano era legare al letto i tossicodipendenti, quando finivano in astinenza durante un ricovero ospedaliero per problemi correlati all’uso d’eroina. Nel penitenziario di Herat, più di metà della popolazione carceraria è dentro per reati legati alla tossicodipendenza. Nel paese, però, iniziano ad essere sempre più le voci che chiedono un intervento risolutivo.
Di qui la tua comunità…
Che da sola non può certo bastare. Siamo partiti con cinquanta posti, che sono stati occupati nel giro di qualche giorno; ma nel frattempo davanti all’ingresso s’era accampata una folla di uomini che chiedevano aiuto, giorno e notte. Così, con qualche pressione sull’Ue e sul contingente Isaf, siamo riusciti a raddoppiarli. Ma quella folla resta ancora lì: segno che il paese ha bisogno di dotarsi non solo di strutture, ma di una vera politica sugli stupefacenti.
Per questo hai voluto coinvolgere operatori di Scampia?
Ovviamente sì, ma non si tratta di agire con una logica da coloni della sanità. Ciò che vogliamo è stimolare uno scambio di competenze: al momento, la struttura è in mano a un gruppo di medici afghani e iraniani della ong Wadan, che in mancanza di una legislazione sui farmaci sostitutivi avevano già sperimentato con successo il trattamento della tossicodipendenza con l’idroterapia. Nel frattempo, le autorità locali ci hanno autorizzato a condurre una sperimentazione con il metadone, ma si tratta di un gruppo molto piccolo di utenti. Gli operatori del consorzio “mediterraneo sociale” per il momento monitorano e si occupano di formazione a distanza: per questo, stiamo mettendo a punto una piattaforma informatica condivisa, che ci permetta una consulenza vicendevole e continua. Per la stessa ragione, l’anno prossimo daremo il via a una serie di periodi di tirocinio tra Napoli e Herat, in modo che gli operatori possano formarsi a vicenda in tema di terapia e riduzione del danno. (Redattore Sociale)