Rimpatri Sudan, ricorso a Strasburgo contro l’Italia
ROMA – L’Italia rischia una nuova condanna alla Corte europea dei diritti dell’uomo, dopo quella del caso Hirsi nel 2012. Stavolta a fare ricorso sono cinque cittadini sudanesi, originari del Darfur, vittime di un rimpatrio eseguito il 24 agosto 2016. Il provvedimento contro il nostro paese è stato depositato due giorni fa dagli avvocati Dario Belluccio e Salvatore Fachile. L’accusa verso il governo italiano è quella di aver eseguito rimpatri collettivi, contravvenendo alla convenzione dei diritti dell’uomo. Ad annunciare il provvedimento sono state le associazioni del Tavolo asilo, in una conferenza stampa oggi a Roma.
“Il ricorso è stato depositato dopo viaggio in Sudan – spiega Filippo Miraglia, vicepresidente di Arci nazionale – qui gli avvocati e alcuni attivisti hanno incontrato 5 dei 40 sudanesi rimpatriati a seguito di un accordo tra la polizia italiana e quella sudanese, che è passato senza nessun controllo del Parlamento. Queste persone sono state recuperate a Ventimiglia e dopo un passaggio nell’hotspot di Taranto, sono state riportate in autobus a Milano e poi a Torino, per essere infine rimpatriati verso il Sudan. Solo un gruppo è riuscito a non salire sull’aereo riuscendo così a ottenere asilo, a dimostrazione che se anche gli altri avessero chiesto asilo l’avrebbero ottenuto”. Secondo Miraglia si tratta di un “trumpismo all’italiana” che punta solo su controlli e rimpatri, come dimostra il decreto Minniti e i recenti accordi con i paesi transito, come quello recente con la Libia.
La vicenda. Il caso del rimpatrio collettivo dei migranti del Sudan è noto alle cronache. Ed era stato già denunciato dalle organizzazioni che fanno parte del Tavolo asilo in Italia. La vicenda risale al 24 agosto scorso quando in applicazione all’accordo stipulato tra i capi delle forze di polizia italiani e sudanesi 40 persone furono rimpatriate forzatamente a Karthoum. Il ricorso è stato fatto da 5 persone. Uno dei ragazzi racconta di essere arrivato in Italia il 29 luglio, dopo un soccorso in mare della Marina militare. Dalla Sicilia si era poi spostato a Roma e quindi a Ventimiglia. Qui aveva trovato accoglienza nella struttura della Croce rossa italiana. Secondo gli avvocati né al momento dello sbarco, né presso la struttura, né lui né gli altri hanno mai ricevuto informazioni sul diritto d’asilo e sulle possibili conseguenze della mancanza di una richiesta di protezione internazionale. Il 18 agosto è stato sono stati arrestati fuori dal centro e costretti all’identificazione con l’uso della forza: “è stato prima preso a schiaffi e poi forzato, dito per dito, a lasciare le impronte”, si legge nel ricorso. Fachile parla di “veri e propri rastrellamenti”, dopodiché i ragazzi sono stati rimpatriati su un volo Egyptair. Nel ricorso si legge, inoltre, che durante l’imbarco i migranti hanno posto resistenza, per questo sono stati immobilizzati e ammanettati dalla polizia. Secondo gli avvocati è stato lo stesso Giovanni Pinto, direttore della direzione centrale della Polizia di frontiera, ha confermare l’episodio parlando dell’utilizzo di fascette di veltro. Dopo il rimpatrio forzato, i ragazzi hanno ricevuto in Sudan la pena del divieto di espatrio per 5 anni. E ha deciso di non tornare in Darfur a causa del pericolo quotidiano. “Ora vivono da fuggiaschi, nascosti nei dintorni di Karthoum”, aggiunge Fachile.
Le accuse all’Italia. Quello del 24 agosto è stato il primo rimpatrio forzato di cittadini sudanesi dall’Italia, visto che prima venivano considerati come persone da proteggere. Secondo gli avvocati il nostro paese avrebbe violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e ha contravvenuto alla legge italiana (art.19 del Dlgs 286/98) secondo cui nessuno può essere espulso verso paesi non sicuri. “Il ricorso serve a rimarcare che gli accordi con paesi come il Sudan non si possono fare e non hanno valore giuridico – aggiunge Fachile -. Inoltre non è possibile effettuare rimpatri collettivi: ogni rimpatrio va fatto sulla base di una situazione specifica non in base al paese di origine”. Per gli avvocati, quella del 24 agosto, è stata un’operazione “programmata e preordinata” (visto che la gara per l’aggiudicazione del volo per il rimpatrio è iniziata il 12 agosto). A far parte della spedizione in Sudan anche Sara Prestianni, di Arci: “E’ In cambio di questo accordo il Sudan ci chiede la formazione della sua polizia di frontiera ma è una follia pensare che un paese come questo possa monitorare i flussi, soprattutto perché la frontiera nord del paese è controllata dai Janjaweed una forza paramilitare che supporta le forze statali della dittatura – spiega – . Anche gli attivisti in Sudan sono preoccupati da questa collaborazione con la polizia italiana, in cui si nega che Al Bashir sia un dittatore”.
Il precedente: il caso Hirsi durante il governo Berlusconi. Ora si dovrà attenere per sapere se il ricorso sarà accettato. Nel caso in cui l’Italia venga condannata potrebbe decadere anche l’accordo con il Sudan. Il nostro paese è stato già condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 23 febbraio del 2012, per respingimenti in mare verso la Libia operati durante il governo Berlusconi. Le violazione in quel caso riguardavano l’art. 3, l’art. 4 e l’art. 13 della Cedu. (Agenzia Redattore Sociale)