Rohingya, MSF: “Dopo 6 mesi la fuga continua”
In sei mesi, dal 25 agosto 2017 ad oggi, sono circa 700.000 i rifugiati Rohingya fuggiti dal Myammar per trovare rifugio nel distretto meridionale di Cox’s Bazar, in Bangladesh, dove vivono in campi sovraffollati e precarie condizioni igienico-sanitarie. Una fuga che continua ancora oggi, sebbene sensibilmente ridotta rispetto all’apice della crisi: ogni settimana ancora centinaia di rifugiati raggiungono il Bangladesh attraversando il fiume Naf.
Questa emergenza umanitaria ha portato Medici Senza Frontiere (MSF) ad incrementare in modo significativo le proprie operazioni in Bangladesh. Attualmente MSF impiega oltre 2.000 operatori umanitari, tra medici, infermieri, logisti, sia nazionali che internazionali, e da agosto a dicembre sono state effettuate oltre 200.000 consultazioni mediche (in media più di 1.600 al giorno).
Le condizioni di vita nello stato di Rakhine in Myanmar restano ancora oggi insostenibili, da quanto raccontano i Rohingya ai nostri operatori sul campo. “Una famiglia arrivata pochi giorni fa mi ha detto di essersi decisa a scappare dopo aver visto i due figli maschi uccisi violentemente da uomini vestiti come militari. Per mettersi in salvo, i genitori dei due giovani e la figlia di quattro anni hanno camminato cinque giorni nella foresta, nascondendosi per lunghi tratti fra i cespugli, prima di arrivare al confine e alla salvezza”, dichiara Francesco Segoni, capo progetto MSF in Bangladesh.
Non appena arrivano nei campi, i rifugiati Rohingya raccontano di sentirsi insicuri, di aver vissuto minacce e violenze nei loro villaggi, di aver venduto i loro beni per avere i soldi necessari per salire su una barca e fuggire. Per loro, rimanere nel proprio villaggio non rappresenta più un’opzione.
Oggi a preoccupare è anche l’arrivo della stagione delle piogge, che potrebbe scatenare un’emergenza nell’emergenza. “Monsoni e tempeste tropicali possono causare inondazioni, ma anche portare ad un aumento di malattie veicolate dall’acqua, come la diarrea acuta” dichiara Kate Nolan, coordinatrice per l’emergenza in Bangladesh per MSF. “Stiamo considerando tutte le possibili ripercussioni, dal rischio di incorrere in lesioni e fratture a causa del terreno fangoso, alla tenuta dei rifugi, per lo più fatti di plastica e bambù”.
L’elevata densità nei campi e il loro accesso limitato, il fatto di non essere stati regolarmente vaccinati contro le malattie trasmissibili, sono tutte condizioni che mettono i Rohingya a rischio di un’emergenza sanitaria. Le equipe mediche di MSF stanno curando persone con morbillo, infezioni del tratto respiratorio e diarrea, malattie legate alle durissime condizioni di vita nei campi. Sono stati 4.280 i casi di difterite, in maggior parte su ragazzi tra i 5 e i 14 anni. “Vediamo anche ferite che si sono trasformate in gravi infezioni perché trattate in modo inadeguato o malattie croniche che non sono mai state curate correttamente”, aggiunge Nolan di MSF.
Dalle consultazioni mediche di MSF emerge che i Rohingya vivevano in condizioni di emarginazione già in Myanmar, dove avevano un limitato accesso all’assistenza sanitaria.
Uno studio retrospettivo sulla mortalità condotto da MSF a dicembre ha inoltre rivelato che almeno 6.700 Rohingya sono stati uccisi in Myanmar nel primo mese dopo lo scoppio delle violenze, tra loro 730 bambini al di sotto dei 5 anni.
MSF lavora in Bangladesh dal 1985. Dal 25 agosto 2017 MSF ha intensificato le sue operazioni nel distretto di Cox’s Bazar dove attualmente gestisce 15 cliniche, 3 centri sanitari di base e 5 ospedali.
MSF lavora inoltre nella baraccopoli di Kamrangirchar, nella capitale Dhaka, fornendo cure di salute mentale, di salute riproduttiva, servizi di pianificazione familiare e consultazioni prenatali, e gestendo un programma di salute sul posto di lavoro per gli operai. (Comunicato Stampa)